Tempo fa, a causa di tutto il possibile che sto facendo per avere un risarcimento degno dall’incidente che mi è capitato lo scorso dicembre, mi sono sottoposto ad una visita neurologica. Fra le cose simpatiche che un neurologo ti fa accorgere quando ti visita, c’è quella che la memoria è un bel casino. Un casino affascinante che porti sempre nella testa ed al quale non pensi spesso, ma un gran bel casino. “Mi dica un po’ di date che si ricorda della sua vita”, così, su due piedi. Ed io ovviamente non me lo sono fatto ripetere due volte: il 26 giungo 2007, l’8 luglio 2009, l’8 dicembre 2000, il 25 settembre 2004, il 9 settembre 1982, l’11 luglio 1982, il 10 agosto 1990, il 9 settembre 2011, il 14 ottobre 2007, l’8 settembre 1993, il 17 giugno 2001 e il 19 febbraio 2011. Mentre le dicevo mi rendevo conto che erano tutte date legate a bei ricordi, momenti belli della mia vita. Quindi ho sterzato di colpo ed ho pensato subito al 6 ottobre 1996, all’8 marzo 2001, all’11 settembre 2001 ed al 16 dicembre del 2011. La data dell’incidente appunto.
Tutto molto indicativo, per me. Evidentemente tendo proprio a rimuovere i brutti ricordi, non riesco a fossilizzare la mia esistenza su quei momenti in cui mi dice male, anche se, come a tutti, non mi dice bene sempre. Il fatto è che secondo me si vive meglio così. Anzi, leviamo il secondo me, io vivo meglio così. E mi piace.
Ed infatti da quanto tempo mammamia che aspetto di scrivere questo post! Un anno esatto. Credo di aver riaperto il blog apposta.
Era la sera di sabato 19 febbraio dello scorso anno. La sera in cui ho scattato la foto che vedete qui sopra. La sera grazie alla quale poi, dopo, ho capito ancora una volta che la vita cambia.
Il racconto dell’accaduto è sempre la parte che mi riesce meglio. Eccovelo.
Quello dell’anno scorso non è stato un inverno freddo come questo, ma sicuramente è stato un inverno più impegnativo a casa DeA. I bimbi, più piccoli di ora, si sono ammalati spesso e noi, molto più stanchi e provati di oggi, arrivammo al nuovo anno sui gomiti. L’estate prima era stata qualcosa di stupefacente ripensando all’impegno che il destino aveva messo nel destabilizzare tutto il possibile (non a caso il blog è rimasto chiuso per tanto tempo). Anche io che faccio sempre del mio meglio, sbagliando, per vedere la parte buona che c’è in tutte le cose che solo cattive non possono essere, ho avuto momenti di seria difficoltà. Oggi ne parlo meglio, ma in quei momenti ho fatto fatica a capire.
Ma torniamo a Roma, alla nostra sala da pranzo, alla cena di sabato 19 febbraio. Se non ricordo male uno dei primi tentativi di cena in contemporanea, cioè tutti e cinque insieme. I gemelli ancora nei seggioloni, uno a portata di mamma e una a portata di papà, Edoardo al suo vecchio posto (oggi lui siede a capotavola ed io lì dov’è lui nella foto) e noi due seduti nello stesso momento. Mangiamo, chi più chi meno, e tutto intorno non si crea neanche il solito pasticcio di pappine e bicchieri rovesciati. Arriviamo alla fine e per un istante non calcolato, non preventivato, ne tanto meno preparato, ci guardiamo. Tutti e cinque. E ci mettiamo a ridere. Di gusto.
Io allora mi alzo, tiro fuori il mio BlackBerry ed immortalo la scena dall’alto. Il soggetto è la tavola, come ci trovassimo in una vecchia osteria. Viene fuori questa sorta di ritratto, ma un ritratto senza volti. Che però rende l’idea. Ed è in quel preciso momento che mi accorgo che qualcosa sta succedendo, sento che arriva, di colpo! Mi chiude lo stomaco, mi prende alla testa e la sento in gola. E’ come un pugno in faccia. Di gommapiuma, però. Corro in bagno, senza far accorgere nessuno, mi siedo sul water e comincio a piangere senza potermi fermare. E comincio a ridere, senza potermi fermare. Capisco che sto facendo le due cose insieme perché mi bevo le lacrime e mi fanno il solletico. Cazzo è arrivata! diochebotta! E’ qui, ora, adesso. La sento.
E’ la Felicità!
Vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli nel cielo campare.
Dopo cinque minuti esco dal bagno, nessuno si è accorto di nulla, sono ancora tutti e quattro a tavola e cominciamo a far scendere i gemelli dai seggioloni. Sembra finita, ed invece, per fortuna, ho una ricaduta. Ora abbiamo rotto le righe e quindi non ho bisogno di scuse, me ne torno in bagno e mi rigodo un altro po’ di quella roba là. Certo è meno forte della botta precedente, ma ancora parecchio piacevole. Torno in camera, bello rilassato, mi sdraio sul letto con le mani dietro la testa e sono un sorriso vivente, probabilmente mi parte dai piedi e mi arriva fino alla testa. Non ricordo in quel frangente cosa ho pensato, prima della fine, ma ricordo che ero talmente consapevole di quello che era accaduto che forse avrei sollevato l’intero palazzo con la forza che mi sentivo addosso. Ecco, è stato proprio lì che ho fatto l’unica cosa che potevo fare, perché sono un essere umano, un povero essere umano, ed ho portato a termine quel momento fantastico nell’unico modo in cui era possibile portarlo a termine. Ho suonato nell’iPod “Felicità” del grande Lucio ed ho commesso l’errore che il copione prevedeva commettessi. Ho pensato ai miei figli, alla loro mamma, ai quattro anni precedenti dove rimanere sani di mente era stato una sorta di miracolo, con i problemi legati anche al lavoro, alla salute, alle crisi di nervi, alle litigate, alle paranoie di ogni tipo, al vedermi spesso come non avrei voluto vedermi…insomma, ho pensato ad un periodo non proprio felice, appunto, e mi sono detto l’unica cosa che mi veniva in mente in quel momento. La più naturale con tutta quella Felicità che mi aveva appena investito di prepotenza: “Ce l’ho fatta! – mi sono detto – Ce l’abbiamo fatta, abbiamo vinto!”.
Che pollo.
A riascoltarla ora mi domando come non sia riuscito a rifletterci quella sera. E’ talmente ovvio, e poi Lucio è un genio, quando l’ha scritta sapeva bene cosa scriveva.
Perché è tutto proprio così. Possiamo aspettare la felicità per un sacco di tempo, magari noi, quelli sempre dal bicchiere mezzo pieno. Attenderla senza patemi, senza drammi, ma quando arriva, ovviamente, siamo poi convinti che sia fatta. Che sia per sempre. Che polli, di nuovo. Perché è invece quando arriva che, sostanzialmente, la felicità finisce. Come quella sera. Se ti senti così bene all’improvviso, non è perché stai per vivere un momento eterno di benessere e spensieratezza, anzi. Vuol dire che, senza saperlo, senza potertene accorgere, hai faticato e sofferto per arrivare fino a quel punto. Non è stata una sofferenza negativa, però, non sono stati dolori e fatiche dettati dal male. Tu hai costruito passo passo la tua felicità e mentre lo facevi, se ora ci ripensi, vedrai che qualche bel ricordo di quel viaggio comincia a spuntare fuori.
Il botto si sa, poi, dura quello che dura, cosa pretendi? Godi il momento della deflagrazione, che a tutti non è dato, ma chiarisciti appena puoi che quella è la felicità che “in fretta, non si ferma mai”.
Potrebbe essere un po’ come l’innamoramento, ma è sicuramente più forte. Almeno, per me è stato così. Di peggio però c’è che l’innamoramento almeno dura molto di più e la consapevolezza che ti raggiunge dopo l’esplosione di una passione la puoi trasformare in amore, dove almeno, se sei fortunato, hai la tua metà di arbitrio. La Felicità invece se ne frega, arriva, ti sdraia, poi scappa e ti spernacchia. Certo, però, che botta. Ricarica come niente d’altro. Assomiglia molto a una grande vittoria. Una coppa del mondo. Hai faticato come un matto, hai lasciato molto di te sul campo, non sei quello che eri quando hai cominciato, ma ora hai vinto, godi! Però poi preparati. Passerai parecchio del tempo che ti rimane e ricordare. E ricordare può essere più doloroso di non essere stato felice mai. Giusto? Forse si.
In questo anno mi sono successe un sacco di cose (ma in fondo qual’è stato l’anno in cui non mi sono successe? È una frase un po’ stupida, ve’? Fosse l’unica…) ed ho pensato spesso alla sensazione di quella sera, inseguendola e non capacitandomi di come non era vero che “ce l’avessi fatta”. Ho riflettuto molto sulla felicità e su quello che vorrei fosse per me, per i miei figli e per le persone che amo. Che sono sempre tante. Ho pensato anche che penso un po’ troppo agli altri. Ad immaginare come vorrei che stessero. Se mi piace così tanto stare immerso nella gente, ma perché allora non mi limito a socializzare? perché invece mi innamoro di tutto quello che respira? perché voglio tutti con me? perché voglio che tutti sappiano di me?
Alcune risposte me le sono date, altre no. Ma fra quelle che ho trovato, di risposte, ce n’è una che mi piace particolarmente. E’ questa: io ho quasi quarant’anni. Alla mia età i grandi cantautori italiani avevano già cominciato a scrivere pessima musica e gli eroi di Spagna ’82 erano tutti imbolsiti. Alla mia età Califano s’era rifatto il naso già due volte e Baricco da tempo usava cambiare punteggiatura e copertina a “Seta” per ripubblicarla con altri titoli. ‘Nsomma DeA, a quarantanni, vorrai mica sconvolgere proprio tu il tuo modo di fare? Le lingue, non le sai. La laurea, non ce l’hai. Credibile, non lo sei. Geniale, manco. Sveglio, meno che mai. Parti da quello che hai, mi sono detto. Riparti da quello sai di essere. Sarà che sono troppo sensibile, o nella teta chissà che c’ho. Ed allora ho pensato che la gente si accompagna a me fondamentalmente perché so intrattenerla. Si, alla fine il significato un po’ povero di questa parola, racchiude però il senso stesso della mia esistenza. Io intrattengo. Faccio si con la testa, mi passo le dita sui baffi mentre mi si parla, fisso il mio interlocutore per far si che capisca (creda…?) che lo sto ascoltando, interrompo pochissimo, provo a registrare le cose importanti da ripetere a chi vuole sentirsele ridire e sono sincero quando ripeto come un mantra “quando vuoi” e “non c’è problema”. Ma lo faccio perché lo penso, Eh! Perché il grande vantaggio di noi superficiali, noi che viviamo in superficie, e che quindi ne copriamo molta di più di chi si celebra in profondità, è che non ci rendiamo conto fino in fondo quasi di nulla e nel nostro non renderci conto c’è la consapevolezza che non esistono problemi insormontabili. Del resto come potremmo intuirlo?
La consapevolezza nei propri mezzi, seppur limitati, è l’arma in più per riuscire a sapersi qualcosa in questo delirio dove siamo immersi. Certo oggi i presupposti dai quali ero partito da adolescente sono crollati per quello che sono. Per quello che sento e penso a quasi quarantanni, rispetto a quello che credevo non meno di cinque, sei anni fa. O quando sono partito, appunto. E con questo racconto di una Felicità inaspettata, ma tanto desiderata che è arrivata, mi ha sdraiato mi ha stropicciato mi ha accartocciato e mi ha rilanciato, faccio i conti sapendo che non posso pensare di spuntarla. E’ la vita. Provo ad assecondarla e se mi dice bene, con un cucchiaio di vetro scaverò nella mia storia, sperando di non colpire a casaccio, perché la memoria non la voglio perdere.
Alla fine questo delirio è poi sempre finalizzato alla solita bottiglia vuota dove infilare un messaggio per i miei figli. Non una regola, non un codice risolutore. Ma un messaggio. Il messaggio di un essere umano con il quale avranno ancora a che fare per un bel po’, ma dal quale sapranno presto che non potranno avere tutte le risposte. Potranno avere tante storie, quelle si. La storia di Cambianeve, come la chiama Caterina, la storia di Saetta McQueen e la storia degli elefanti rosa di Dumbo. Ma poi anche le storie del loro papà, di quello che gli capita, gli è capitato e gli capiterà, nella speranza che fra la miriade di esperienze che ogni essere umano deve vivere per arrivare alla fine, loro possano assorbire da me un po’ di buono e poi formare un loro approccio personale al mondo. Convincendosi passo passo che non c’è una regola che vale per tutto e che a volte il concetto stesso di regola è fuorviante. E che se papà l’ha capito tardi che pianificare a priori può essere controproducente se non sei in grado di decidere tu su tutto, magari loro potranno rifletterci un po’ prima, e scegliere da soli come rapportarsi agli eventi di volta in volta, con meno aspettativa nei confronti della propria personale visione (da mantenere, però, per carità) e più concreta libertà. Così da non accontentarsi della sicurezza, di un’auto, di qualcosa da invidiare. I miei figli, ma come loro tutti i bambini di oggi, avranno più tempo per registrare e farsi domande, perché ne impiegheranno molto di meno ad incamerare e poi riflettere sul da farsi. Andranno incontro a deliri, timori, sofferenze e drammi. Tutte situazioni dove noi risulteremo invisibili ed inadeguati, forse più di quanto non lo siano stati i loro nonni. Sarà in quel momento che potremmo sperare, senza farci sentire, che le nostre storie abbiano avuto un’utilità al loro diventare grandi. Visto che alla fine siamo tutti esseri umani, solo di età diverse. E tutti meritiamo la felicità. Perché siamo innocenti.
Entro certi limiti.
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